Page 3 - Su Il latte degli Dei
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dagherrotipi, diari e memoriali, notarelle, scartoffie inedite, eccetera ); ma tutto questo
            materiale ha solo un valore di una fredda, se pur nobile, cognizione di arricchimento
            culturale. Insomma, da dove proviene la più profonda e fondamentale vena narrativa di
            Gemma ? Qual'è l'origine di tanta semplice e disinvolta capacità nella descrizione  di
            persone e cose come fosse faccenda di tutti i giorni ? Francamente io non lo so e non
            voglio addentrarmi nei misteri e nelle psicologie degli scrittori.. Ho dichiarato che non
            sono un critico letterario e su questo terreno direi un sacco di sciocchezze. Posso forse
            dire che il successo delle descrizioni e della narrativa di Gemma sono principalmente il
            risultato di una sua innata spontaneità e di un radicato divertimento nel raccontare storie.
               Da qui l'analogo divertimento per chi legge: come arrivano facilmente certe
            espressioni, come sono giusti e pertinenti i nomi di alcuni personaggi, come colgono nel
            segno certe sintesi, come, allora, l'insieme di tutto questo fa sì che Il Latte degli Dei  sia
            una godibilissima lettura. Ho buttato giù una  sorta di florilegio, le cose più belle di
            Gemma Cortese, tante e tutte: simpatia, grazia, bellezza, intelligenza, eleganza. Meglio di
            così.
                Ma no, questo lo sapevamo. Ma mi fa piacere di avervelo ricordato. Volevo anche
            elencare le cose che mi sono rimaste impresse del suo romanzo: i nomi così nostrani,
            non studiati, ma affibbiati con tanta rispondenza d'epoca e di luogo: Rutilio, Pompilia,
            Cesidia, Felicetta Diotallevi, Vezio, magnone e beone, Monsignore Checchetelli,
            l'avvocato Terrinoni, dal cognome così precisamente ciociaro, Tiberius Petersen,
            archeologo danese. E, ancora, certe frasi fulminanti: " La zitella, gialla come una patata
            cruda. "
               Ricordo poi la sintesi dell'infanzia,  tutta romana, di Monsignore: " Nitidamente
            disegnate al centro, ma sfocate nei margini, sfilarono nel racconto la madre dal carattere
            paludoso e poi le zie, funeste nell'usurpargli ogni respiro: pinzochere ridicole nel
            dispotismo d'allontanarlo da chissà quali mormorazioni, gelose guardiane di zone
            polverose e distanti ( in cui forse stagnava, deformata, la memoria di pretendenti defunti
            ) e tese nell'ostilità a qualsiasi cosa gridasse al cuore. Rosari vespertini, dolci sciropposi,
            cieli senza giardino, questo era il mondo delle Signorine Gustavina, Eusebia e Pulcheria
            Ciancaleoni. Chino su lavori d'ago o trafelato nella preparazione d'insulse conserve,
            intorno alle bigotte s'affaccendava un pericoloso esercito di femmine senza tempo,
            imprevedibile nei cambiamenti d'umore e corazzato in implacabili corsetti: sentenzioso
            su vecchi scandali di fantasia, fervido  nelle trovate dementi di " fioretti " e
            nell'insegnamento del catechismo a figliocce  e renitenti monelli del vicinato. Inutile
            aggiungere che non c'era avarizia, lì dentro, nell'allietare ogni malcapitato visitatore con
            edificanti punture di spillo su ogni brandello di libertà altrui.."
                Mi è molto piaciuta infine la conclusione del romanzo: è la lirica rappresentazione
            della squallida monotonia  di una villeggiatura  romana durante una notte di fine estate in
            una Villa dei Castelli Romani dove sono riuniti i vari personaggi del racconto. Leggiamo
            che: alcuni dormivano "…ben lardellati da una tranquillità primordiale "; i ragazzini "
            …se ne stavano finalmente quieti in un sonno pantanoso, dopo essersi accaniti tutto il
            giorno a devastare nidi con le fionde, squartare grilli ed impiccare lucertole. " Altri, e
            sono fra i protagonisti, erano " semiassopiti in pose negligenti sulle poltrone a sdraio
            d'una loggia". Nelle stanze " stagnava il lusso povero delle residenze estive dei Castelli:
            divani dignitosamente sfiancati, pianole buone soltanto per canzoni d'altri tempi, vedute

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