Page 33 - Genta a Roma
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trascinate sul ponte e massacrate con una sventagliata di mitra. A monito della popolazione i
tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni
lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un
camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte.
Cesare De Simone, giornalista del Corriere della sera e informatissimo storico di Roma in
guerra, ha condotto sui fatti del ponte di ferro una ricerca appassionata quanto vana: tanto vana
da indurlo a riviverli non in un saggio ma in un romanzo, Donne senza nome. Nell’accaduto,
giustamente, De Simone vede "un episodio memorabile nella storia della città", di più, "l’anima di
una città che si ribella". Di quelle dieci vittime scrive:”Proprio perché sono donne senza nome e
senza faccia, non se ne sa niente. Sono state ammazzate e basta, ignoriamo persino in quale
camposanto siano sepolte, sono il concime della storia. Io vorrei scoprire i loro nomi, riuscire a
vedere le loro facce, conoscere le loro storie personali. Da quali case sono uscite quel mattino per
andare a morire, quali famiglie hanno lasciato, quali speranze e quali rancori le muovevano verso
il rischio dell’affrontare le S.S. naziste? È come se mi fossi innamorato di loro".
Nella postfazione al libro, così conclude l’autore:”La storia delle dieci donne romane
fucilate dai tedeschi al ponte dell’Industria nell’aprile '44 dopo un assalto al forno Tesei, è un
episodio autentico. Ed è anche vero che accurate ricerche non hanno permesso di trovare – in un
verbale di polizia – altro che i nomi delle dieci vittime. Oggi quei nomi sono incisi su una lapide
di bronzo che il Consiglio Comunale di Roma ha fatto murare all’ingresso del ponte, lato via del
Porto Fluviale. Poco distante dal punto esatto dove le dieci vite vennero fucilate. Le fucilate si
chiamavano Clorinda Falsetti, Italia Ferraci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia
Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia
Loggreolo.
Ci sono anche dieci volti, sulla lapide, uno accanto a ogni nome: ma sono virtuali, dovuti
cioè alla fantasia di un ottimo scultore, Giuseppe Michele Crocco, che ha scolpito il bassorilievo
donandolo alla città.
Nonostante i nomi non si è riusciti dunque a risalire ai personaggi delle uccise. Erano
probabilmente registrati all’anagrafe cittadina col cognome del marito, oppure erano arrivate a
Roma, sfollate, da qualche paese del Lazio o del Sud. L’autore, nella fantasia della narrazione, ha
preferito conservare l’ignoto anche per i dieci nomi, al fine di sottolineare al massimo la cesura
della memoria che da così tanti anni pesa sulla vicenda del ponte di ferro".
Un nome e un volto precisi ha invece un’altra donna che partecipa all’assalto di un forno
al Tiburtino III. È ancora viva l’eco del comizio di protesta del primo maggio, il giorno prima.
Fra la folla di donne che irrompono nel forno per prendere qualche pezzo di pane c’è Caterina
Martinelli che viene uccisa da una fucilata della P.A.I. (la Polizia Africa Italiana che funge da
servizio d’ordine per conto del Governo fascista repubblicano), accorsa per sedare il tumulto.
Cade sul selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa, una pagnotta stretta al petto, in braccio
una bambina ancora lattante: stramazza a terra sopra la figlia che sopravvive ma che avrà poi la
spina dorsale lesionata. Una specie di monumento alla madre affamata.
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