Page 35 - Genta a Roma
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ANDREA FILIPPO DORIA PAMPHILJ (VI)
            (1886-1958)                                Il sindaco del "Volemose bene…"





                   Non  parla  mai.  Tutti  vorrebbero  che  dicesse  qualche  cosa  sulla  situazione  avvilente,
            umiliante,  disperata dell’Urbe. Ma cosa può dire,  cosa  può  proclamare,  stabilire,  ordinare nella
            situazione  avvilente,  umiliante,  disperata  che  c’è  a  Roma  dopo  il  4  giugno  1944?  Prima  era
            peggio, ma anche  adesso…. Lo  hanno  fatto  sindaco  ricordando  il  suo  principesco  e distaccato

            antifascismo durante  il  regime: qualche resistenza  al  Piano  Regolatore  che toccava  l’immensa e
            bella  Villa  Pamphilj,  una  madre  e  una  moglie  inglese  e  conseguente,  discusso  e  odiato  stile
            britannico,  il  rifiuto  di  esporre  il  tricolore  a  Palazzo  Doria  il  18  novembre  1935,  giorno  della
            Fede  alla  Patria  (con  relativa  offerta  delle  "fedi"  nuziali  e  relativa,  immediata  punizione  del

            cambio  del  toponimo  vicolo  Doria  in  via  della  Fede),  un  confino  politico  ad  Acropoli,
            l’isolamento  dalla  maggior  parte dell’aristocrazia  romana  che  al  momento  del  gran  consenso al
            fascismo  ha  dato  all’Urbe,  tra  il  1925  e  il  1943  ben  quattro  governatori  (Spada  Potenziani,
            Boncompagni  Ludovisi,  Colonna  e  Borghese).  Dopo  l’8  settembre  i  tedeschi  lo  cercano;  per
            sfuggire  alla  cattura  si  rifugia  nella  casa  accogliente  di  Francesco  Marmaggi,  il  "Cardinal  di
            Trastevere".

                   Il giorno  della  Liberazione il  generale Hume  chiede al  Presidente del  Consiglio  Bonomi
            chi  possa  essere  il  sindaco  di  Roma;  viene  fatto  il  nome  del  Principe  Filippo  Andrea  Doria
            Pamphilj (VI), per le  sue benemerenze  antifasciste che coincidono con l’intendimento espresso
            dallo stesso Hume "consapevole dell’antichissima consuetudine di affidare a un principe romano
            l’amministrazione della città". Il principe accetta e il 10 giugno in Campidoglio a conclusione di

            una  brevissima  allocuzione  di  saluto  e  ringraziamento  ai  generali  Clark,  Hume  e  Bencivenga,
            termina  con  il  famoso  incitamento  "Volemose  bene".  Il  generico  invito  sgorga  immediato  dal
            cuore di un romano ai romani in un momento pericolosissimo di conflitto civile. Non resta che
            volerci  bene.  È  inutile  dire  altro  e  sottintende  "poco  posso,  poco  possiamo  fare,  ci  sono  gli
            Alleati che controllano e stabiliscono le sorti della nostra  Roma". Li per  lì il  "Volemose bene"

            (anche  se  in  un  dialetto  curiosamente  inglesizzato)  piace  soddisfa  quieta.  Passano  i  mesi.  La
            prevista inazione capitolina è totale e agli affamati e ai disagiati romani servirebbe, forse, almeno
            una  parola  di  conforto  e  speranza  secondo  le  precedenti  cattive  (o  buone?)  abitudini  cui,  da
            secoli, erano abituati. Il "Volemose bene" non basta, non piace più: si ironizza sul "taciturno" e,
            parafrasando l’aforismo mussoliniano "Nudo alla meta", il principe silenzioso è "Muto alla meta".

                   Gli  ingrati  e  indifferenti  romani  non  si  rendono  conto  che  il  loro  sindaco,  anche  se  in
            silenzio, negli ultimi giorni del giugno 1944 si reca con il prof. Ascarelli alle Fosse Ardeatine per
            la pietosa operazione del riconoscimento delle salme.
                   Poi in due giornate, il 16 e il 18 febbraio 1945, agli occhi degli increduli romani appare,
            con il suo stile riservato e quasi clandestino, a capo di una retata contro i borsarineri asserragliati
            con le loro mercanzie a Tor di Nona e nella zona di Borgo Pio. La silente e appartata sua attività





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