Page 54 - Genta a Roma
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AUGUSTO PALOMBI Comparsa dilaniata
(1879-1924)
Tra le poche industrie di Roma, ce n’è una che ha più o meno funzionato sempre, il
cinematografo, dando di che vivere (benissimo, bene o benino secondo i casi) agli artisti e di che
sopravvivere alle cosiddette "comparse".
Quello delle comparse è un lavoro facilissimo e infatti molte persone vogliono essere
utilizzate come tali: una volta reclutate (questa è l’unica difficoltà), devono soltanto prendere
parte a qualche ripresa del film figurando con la propria persona, insieme a tante altre, sullo
sfondo della scena. Niente battute, solo pazienza e rassegnazione per ore e ore, sotto un sole
cocente o con un freddo cane indossando puzzolenti costumi antichi romani, napoleonici o
biblici, assetati e affamati, agli ordini urlati e villani dei capogruppo che le trattano come mandrie.
Un lavoro, nonostante tutto, molto ambito da varie centinaia di fannulloni, disoccupati, studenti
negligenti e avventurieri di giornata che con poca o relativa fatica riescono a percepire qualche
quattrino per tirare a campare. Tutta questa malarisma si fa avanti per farsi reclutare, per farsi
"spuntare", come si dice nel gergo dei cinematografari, e si mischia ad altri numerosi poveracci
per bene anche loro con la medesima impellente necessità di guadagnare qualcosa.
Un’impietosa e veristica visione del mondo delle comparse la dà Luigi Pirandello nel
romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, ambientato negli anni del "muto":
"Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii,
coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse. La loro petulanza è
insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una miseria, che non
chiede la carità di un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso grottescamente. Bisogna
vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino-vestiario per ghermire e indossar subito qualche
straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme e gli sterrati, sapendo
bene che, quando riescano a vestirsi, anche se non posano, tiran la mezza paga".
Negli anni Dieci, quelli trionfali per il cinema italiano, Roma pullula di case di produzione:
Cines, Palatino film, Celio, Guazzoni film, Nova film, Bertini film, Medusa film e via di seguito, i
cui stabilimenti per le riprese si trovano appena fuori porta, molti intorno al quartiere di S.
Giovanni, fra vetusti ruderi e orticelli urbani. Di giorno, dentro capannoni in vetro, con la luce
solare, si girano gli interni dei film mentre di sera, per proseguire le riprese, gli ambienti vengono
illuminati artificialmente con le lampade. Fuori, nei piazzali antistanti, vengono elevate le grandi
ricostruzioni di esterni.
Le specialità sono i colossi storici, come Quo V adis?, Messalina, Gli ultimi giorni di Pompei,
dove le masse, e quindi le comparse, costituiscono un elemento indispensabile. Sono anni d’oro,
destinati però a finire con la Grande Guerra che, insieme a tante altre cose, distrugge il nostro
cinema. Quando si cerca di riaggiustare i cocci, si riparte proprio da lì, dai filmoni antico romani
che avevano fatto il giro del mondo. Nel 1924 la Palatino film, che partecipa con molte altre
società a quell’Unione Cinematografica Italiana (U. C. I.) creata proprio per tamponare la crisi,
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